Perché fai quello che fai?
A tre muratori viene chiesto: “Cosa state facendo?”. Il primo risponde: “Tiro su un muro”. Il secondo risponde: “Costruisco una chiesa”. Il terzo risponde: “Costruisco la casa del Signore”.
A tanti di noi piacerebbe essere come il terzo muratore, ma si identificano invece col primo o col secondo. Una delle importanti fonti della passione è avere uno scopo: delle lunghe giornate di fatica, degli intoppi, delle delusioni e dello sforzo, del sacrificio, di tutto questo è valsa la pena perché alla fin fine tutte le energie investite vanno a vantaggio degli altri. Essenzialmente, l’idea di avere uno scopo è pensare che ciò che facciamo conta non solo per noi stessi. Possiamo dire che lo scopo è “l’intenzione di contribuire al benessere nostro e altrui”.
Uno dei primi a riconoscere che esistono due modi fondamentali di perseguire la felicità fu Aristotele, che distingueva fondamentalmente l’eudemonia – letteralmente, “buona coscienza” – dall’edonismo. Da una parte gli esseri umani ricercano il piacere perché nell’insieme le cose che ci danno piacere migliorano le nostre probabilità di sopravvivenza, dall’altra parte l’evoluzione stessa della specie ci ha indotti a cercare un senso e uno scopo, in quanto esseri intrinsecamente sociali. Infatti anche il bisogno di legarsi agli altri e di assisterli aiuta la sopravvivenza: gli esseri che collaborano ne hanno maggiori probabilità in confronto agli individui isolati. Per alimentare una passione nel tempo non basta l’interesse, ma ci vuole anche il desiderio di rapportarsi con gli altri e di rendersi utili. Scommetterei che ognuno di voi, se vi fermate un attimo a riflettere sui momenti nella vita in cui avete dato il meglio di voi, dimostrandovi all’altezza delle sfide incontrate e trovando la forza di fare cose che sembravano impossibili, vedrà che i vostri scopi erano legati in qualche modo o per qualche verso al vantaggio degli altri.
Fortunati coloro che si prefiggono uno scopo talmente in armonia col mondo da dare un senso a tutto ciò che fanno, per quanto piccolo o noioso sia. Ci sono persone che mandano avanti il mondo ripetendo gesti gentili con precisione impeccabile. Prendiamo la parabola dei muratori, a tanti di noi piacerebbe essere come il terzo muratore, ma si identificano invece con il primo o il secondo. Solo una minoranza di occupati considera il proprio lavoro una vocazione. Cosa tutt’altro che sorprendente, questi sono più felici e realizzati di coloro che definiscono la loro attività come un mestiere o una carriera. Qualunque lavoro può essere un mestiere, una carriera o una vocazione. Quello che conta è se la persona che fa il lavoro crede che il mattone che va a posare sia solo un obbligo, oppure un passo che la condurrà più in alto, o infine un’opera che la mette in contatto con qualcosa di molto più grande. Tutto sta nel modo in cui lo si vede, il che significa che è possibile progredire da un puro e semplice impiego a una carriera, a un’autentica vocazione, facendo sempre lo stesso tipo di lavoro. Non facciamoci prendere da angoscia pensando che ciascuno debba trovare la propria vocazione come se fosse qualcosa di magico, che esiste da qualche parte e aspetta solo di essere scoperta. La vocazione è qualcosa di molto più dinamico, non la scopri ma la costruisci! Qualunque cosa tu faccia, dall’inserviente al direttore generale, puoi esaminarla di continuo e chiederti se il tuo lavoro ti metta in rapporto con gli altri, come rientri in un quadro più ampio, come può esprimere i tuoi valori più profondi. In altre parole, il muratore che prima diceva: “Metto un mattone sull’altro” può diventare un giorno quello che riconosce di stare costruendo la casa del Signore.
Secondo William Damon, professore di Psicologia evolutiva a Stanford, tale orientamento che va oltre l’interesse personale può e deve essere intenzionalmente coltivato. Dopo cinquant’anni di brillante carriera, oggi Damon si occupa in particolare di come gli adolescenti possono imparare a condurre una vita che sia personalmente gratificante e allo stesso tempo utile alla società. In sostanza, afferma, studiare la formazione di uno scopo di vita è la sua autentica vocazione. A suo avviso, lo scopo è infatti una risposta conclusiva alla domanda: “Perché fai quello che fai?”. Accumulando nelle sue ricerche dati su dati egli nota che c’è un quadro ricorrente: ognuno ha una scintilla, qualcosa che gli interessa e quello è il primo inizio di uno scopo. Poi c’è bisogno di osservare qualcuno che sia davvero animato da uno scopo nella vita; qualcuno a cui ispirarsi. Questo modello di ruolo può essere un familiare, una figura storica, un personaggio politico… Non importa chi sia e non importa nemmeno che quello scopo abbia qualcosa a che fare con ciò che il ragazzo finirà per intraprendere: ciò che conta è che qualcuno dia l’esempio che è possibile realizzare qualcosa a vantaggio degli altri dando così pienezza alla propria vita! Quella che segue, secondo Damon, è una rivelazione: si scopre un problema che deve essere risolto, scoperta che può avvenire in molti modi, a volte per un lutto o un’avversità personale, a volte imparando da avversità che colpiscono altri. Ma non basta vedere che qualcuno ha bisogno del nostro aiuto: per trovare il proprio scopo nella vita è necessaria una seconda rivelazione: “Io personalmente posso fare qualcosa”. Questa convinzione, questa intenzione di agire è, per Damon, la ragione per cui è tanto importante avere osservato da ragazzi un modello di ruolo che nella sua vita ha saputo mettere in atto uno scopo fondamentale: “Devi credere che i tuoi sforzi non saranno invano”.
A qualunque età, non è mai troppo presto né troppo tardi per cominciare a coltivare il senso di uno scopo nella vita. Ecco tre linee di pensiero:
- Rifletti sull’utilità sociale di ciò che stai già facendo. Cosa puoi fare per migliorare il mondo? Prova a trovare collegamenti fra questo problema e il tuo lavoro o i tuoi studi.
- Pensa quali cambiamenti, piccoli o grandi, puoi apportare al tuo lavoro attuale per renderlo più coerente con i tuoi valori di base. Non si tratta dell’idea puerile che ogni mestiere possa essere un paradiso: il concetto fondamentale è che, nell’ambito delle mansioni prescritte, si possa sempre intervenire aggiungendo qualcosa, delegando certe prestazioni e personalizzando le operazioni, in maniera da corrispondere meglio ai propri interessi e valori.
- Ispirati ad un modello di ruolo animato da uno scopo. Immaginati fra quindici anni. Quale pensi che allora sarà la cosa più importante per te? C’è qualcuno la cui vita ti ispira ad essere una persona migliore? Chi è? Perché?
La felicità è nelle nostre mani, dipende da noi la possibilità di fare del nostro lavoro un mestiere, una carriera o una vocazione.