Come nasce il Coaching Umanistico?
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Negli ultimi trenta anni si sono succedute tre generazioni di coaching, che seppur ancora oggi convivono e si confondono, si distinguono per qualità e complessità. La prima, pionieristica e fondativa, è quella degli Obiettivi; la seconda, eclettica e innovativa, è quella della Psicologia Positiva; la terza, profonda e scardinante, è quella della Prospettiva Riflessiva.
La Prima Generazione: Coaching e Obiettivi
La prima generazione di Coaching è nata alla fine degli anni Novanta sulla scia dell’industria dello sviluppo personale (Covey, Robbins). La sua intrinseca dinamicità dipende dall’energia degli obiettivi e dalla determinazione della performance. Gallway e Whitmore ne sono i principali divulgatori. Il cliente vola alto, sa dove planare e chiede strumenti perché il viaggio sia veloce, efficace e sicuro (caro coach ho un obiettivo, mi aiuti e a realizzarlo?).
La Seconda Generazione: Coaching e Psicologia Positiva
La Psicologia Positiva, nata dai finanziamenti visionari della Fondazione Templeton, e il coaching, che scoprendo la maieutica compensa l’assenza della filosofia moderna, si attraggono con un amore a prima vista. Grazie al contributo della Psicologia Positiva (Seligman, Peterson, Biswas, Diener e altri), il Coaching si è arricchito di un fondamento scientifico e di una tassonomia delle risorse certificata dalle Università, mentre la Psicologia Positiva ha trovato nei coach l’approdo alla pratica che le mancava, oltre a un’ottima fetta di mercato e di marketing. I punti di forza sono intesi come capacità performative, competenze o tratti caratteriali. Il cliente è incentrato sull’autostima che vuole fondare su motivi solidi e non seduttivi (finita l’epoca del “tu vali” scopiazzata dai commerciali della L’Oréal).
La Terza Generazione: Coaching in una Prospettiva Riflessiva
La terza generazione di Coaching è un coaching che assume la riflessione prima dell’azione (Stelter, Kirkely). E’ uno sviluppo ulteriore dei modelli della seconda generazione. Tuttavia, presenta un cambiamento nella relazione. Sia la prima che la seconda generazione presentavano una forte asimmetria nella relazione di coaching. Famosa la frase: il coach non dà consigli (sottinteso: a meno che non siano sotto forma di domande). La posizione base del coach era in apparenza neutralista, non-valutante, distante dalle scelte del cliente, tutta concentrata nel fare domande potenti (da dove derivava questa potenza rimane tuttora un mistero irrisolto). Il cliente era il massimo esperto del tema proposto. Nella terza generazione, il coaching diventa un genuino dialogo fra due persone dove il coach condivide le sue riflessioni per co-creare un dialogo con il cliente. Ci si accorge che le rappresentazioni incidono sulla percezione e i problemi non si risolvono con la logica. Nuove visioni della realtà e degli scopi emergono nel dialogo. Caratteristica preminente è il confronto sui valori come guida delle scelte. Gli obiettivi che una volta erano presupposti, ora sono conquiste creative. “Il coach e coachee agiscono come filosofi, le loro riflessioni a volte fanno luce sulle grandi questioni della vita“ (Stelter, p. 52).
Il Coaching Umanistico come Innovazione Culturale
Il Coaching Umanistico nasce dall’approccio maieutico della Prima Generazione, dalle potenzialità della Psicologia Positiva della Seconda e si sviluppa come corrente indipendente nella Terza Generazione. Il Coaching umanistico è una sintesi innovativa delle generazioni di coaching attraverso tre dimensioni:
- innovazione culturale tramite cambiamenti paradigmatici ispirati all’autorealizzazione;
- allenamento delle potenzialità come valori, competenze e talenti (soggetti all’allenamento e alle opportunità del contesto più che alla genetica);
- elaborazione di obiettivi di sviluppo significativi, strategie per raggiungerli, efficacia dell’azione, verifica della pratica.
Il Coaching Umanistico cerca di rispondere ai grandi cambiamenti culturali, contraddittori e radicali, che investono l’orientamento di vita (la cultura del sé, l’autorealizzazione, l’insopportabilità dell’infelicità), le relazioni sentimentali (relazioni di amore, relazioni familiari, relazioni educative) e i contesti organizzativi (motivazioni, visioni, lavoro di team, vocazioni). La relazione di Coaching Umanistico supera l’asimmetria originaria, inquadrandola in un nuovo contesto relazionale. Il Coach, non fa solo domande, ma diventa co-protagonista del progetto di Coaching, delle scoperte paradigmatiche, dei metodi di allenamento delle potenzialità e dell’elaborazione degli obiettivi. Il dialogo di Coaching, dunque, diventa un laboratorio di partnership filosofica allenante finalizzata all’azione. Il cuore del processo di Coaching è l’allenamento della ψυχή (psiche) intesa come coscienza sentimentale, etica e elettiva, che prefigura, guida e verifica l’azione e i risultati.
Nel Coaching Umanistico, dunque la performance è subordinata alla crescita valoriale, gli obiettivi sono frutto di un nuovo senso e significato, l’allenamento è finalizzato a essere persone migliori. Il processo di autosuperamento ha senso solo se rende la vita più felice. Il tema della felicità è trattato nella sua tridimensionalità: individuale, relazionale, collettiva. Non si può essere felici da soli, senza coltivare relazioni felici e migliorare il contesto in cui si vive. L’umanesimo attraversa ogni sessione di coaching.